Al contrario di molte altre arti marziali (ad esempio judo, aikido o kendo), il karate-do può essere praticato anche in solitaria.
Certo, per noi il karate è una cosa piacevole, e le cose piacevoli si fanno sempre (almeno) in due, quindi oggi parliamo di Uke!
E chi è?! Un maestro giapponese?? O un personaggio di qualche anime?
Ma no… Uke, che si scrive così: 受け (u-ke), significa, a seconda del contesto: “popolarità, favore”, ma anche “difesa”, oppure “ricezione”. Nel mondo delle arti marziali, in particolare, è proprio quest’ultimo il significato usato: è “colui che riceve [la tecnica]”.
Uke, quindi, non è una persona definita, quanto piuttosto un ruolo che si assume al momento della pratica, in contrapposizione a Tori (quell’altro, si scrive così: 取り).
Avete presente quando il maestro spiega una tecnica, magari dimostrandone l’efficacia su di un povero malcapitato che si vede volare a terra senza capire né come né perché? Ecco: Uke è quello che le prende.
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Ma è davvero così?
Be’… no. Uke è molto di più che un sacco da boxe, un fantoccio su cui scaricare la frustrazione di una giornata andata non proprio splendidamente. Anzi, non è affatto quello! Se Tori è (letteralmente) la parte attiva della tecnica, Uke è la persona che ci rende possibile “sintonizzare finemente” il nostro karate.
Mi spiego.
Durante l’addestramento, un karateka (in realtà, ogni praticante di un’arte marziale fatta bene) impara a “sentire” il proprio corpo, a sviluppare finemente la propriocezione, il senso di sé, cioè a comprendere quali muscoli siano necessari per un determinato movimento e quali invece no. Ciò in un’ottica di “efficientamento”, tanto importante quanto più si invecchia e… le energie a disposizione non sono più quelle di una volta.
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Un tale lavoro di conoscenza di sé stessi, tuttavia, non può essere svolto completamente in solitaria, poiché su molti movimenti mancherebbe il necessario feedback. Per intenderci, non mi metterei mai a dare un pugno ad un muro per sapere quanto io sia forte (semmai, colpirei un sacco da boxe): non avrei un’idea quantitativa dell’efficacia effettiva. Uke aiuta in questo.
Nel judo (o nell’aikido), la cosa è ben più evidente sin dalle prime fasi: quando Uke afferra Tori con una presa o un bloccaggio, Tori deve cercare la maniera per potersi divincolare. Sa che è inutile opporre forza a forza (un bravo maestro non fa altro che ripeterlo: sfruttare la forza dell’avversario è l’essenza dell’arte marziale), ma riuscirci davvero è tutto un altro paio di maniche. Come l’acqua di un ruscello percorre sempre la strada a minor resistenza, così grazie ad Uke, anche Tori può esplorare “tutte le strade” e trovare quella migliore; quella di minor resistenza.
Uke è colui (o colei) che, quando ti colpisce sull’addome, ti aiuta a capire cosa significhi incassare un colpo. Ricordatevi che lo fa senza cattiveria (spero!); vi aiuta a… condizionarvi.
Uke è chi ti permette di capire quale sia la distanza corretta per una tecnica, di valutare i tuoi tempi di reazione, di farti provare la paura del dolore (perché tutti, davanti ad un attacco, abbiamo paura di farci male se non pareremo correttamente) e quindi di catalizzare quella paura per trasformarla in sicurezza.
Uke è chi ti stimola ogni volta ad andare un pochino oltre il tuo limite, per scoprire che è possibile farlo e che è così che si migliora; Uke trasmette quell’“energia” che il praticante di arti marziali sente “fluire” dalle altre persone.
Uke è un metronomo e anche un calibro.
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Quando si comincia la pratica, si saluta Uke con la frase お願い します (o-nega-i shi-ma-su, “per favore/prego”, ma che nel significato più letterale è “mi affido [a te]”), proprio per ricordarsi quanto gliene siamo grati.
Ecco perché Uke ha un ruolo assolutamente indispensabile nella crescita tecnica di un praticante. Le cose importanti si fanno in due!